In un tempo storico in cui l’umanità si interroga sul significato profondo dell’esistenza, il rapporto con il lavoro diventa uno specchio fondamentale dello stato di coscienza collettivo e individuale. Ogni Primo Maggio siamo invitati a celebrare il lavoro, ma sempre più persone sentono il bisogno di rivedere radicalmente il significato di questa parola: non tanto interrogarsi su che cosa facciamo per vivere, quanto piuttosto su come viviamo ciò che facciamo.

Il lavoro, da molti vissuto come fatica, come imposizione o mera necessità economica, può trasformarsi in un’opera d’arte, in una via di autorealizzazione, di contributo alla collettività, di manifestazione del nostro talento.

Vorrei proporre alcune domande fondamentali:

  • Qual è il significato profondo del lavoro?
  • Siamo consapevoli del perché lavoriamo?
  • Come incide il lavoro sulla nostra coscienza?

Nel nostro inconscio collettivo si sono depositati contenuti ancestrali riguardo al lavoro. Un riflesso di questo lo troviamo nell’etimologia stessa della parola. In italiano, “lavoro” deriva dal latino labor, che significa fatica. Analogamente, in francese “travail”, in spagnolo “trabajo”, in portoghese “trabalho” – tutte queste parole derivano dal medievale traballium, uno strumento di tortura.

Nell’immaginario collettivo, il lavoro è rimasto così legato a un’idea di sofferenza, a una condizione dalla quale fuggire il prima possibile. Da qui nasce la rincorsa alla vacanza, al sogno della pensione e al sollievo dalla “fatica”.

Ma è davvero questo il senso profondo del lavoro? Non sarà forse questa visione il frutto di una ferita culturale, psicologica e spirituale che attende ancora di essere guarita?

Siamo chiamati, come individui, come gruppi e come umanità intera, a intraprendere un cammino di guarigione del nostro rapporto con il lavoro.

In inglese esistono due termini distinti: “job” e “work”.

“Job” indica il lavoro alienante, necessario per sopravvivere. “Work”, invece, si riferisce all’attività che svolgiamo con passione, che rappresenta la manifestazione della nostra missione, della nostra vocazione.

Anche in tedesco troviamo una distinzione simile tra “Arbeit” e “Werk”. In latino, oltre a “labor”, che indica la fatica, esiste “opus”, che rappresenta l’opera creativa, l’espressione della vocazione interiore.

In italiano, purtroppo, non abbiamo mantenuto una parola che distingua queste due dimensioni. L’unica parola vicina a work è “opera”, ma essa è relegata al linguaggio artistico o liturgico. Forse dovremmo riappropriarci del senso pieno di questa parola, dicendo: “Vado a compiere la mia opera”, per guarire l’immagine del lavoro dentro di noi.

Quando nella Costituzione leggiamo che “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, dovremmo domandarci: quale lavoro? Il “job” della sopravvivenza o il “work” della vocazione? Sarebbe bello poter dire che “l’Italia è una Repubblica fondata sull’opera”. Il lavoro inteso come “opera” diventa spazio sacro, laboratorio interiore, officina spirituale. Quando lavoriamo in connessione con il nostro Sé profondo, sentiamo che ciò che facciamo è significativo, realizzativo e utile al bene comune.

Il lavoro, allora, diventa una via di conoscenza, di elevazione, di bellezza: una via di espansione della coscienza.

Come i monaci medievali ci insegnavano con il loro “ora et labora”, possiamo recuperare l’idea che lavorare sia pregare. Non come attività distinte, ma come due espressioni di una stessa unione tra spirito e materia.

Il lavoro, vissuto consapevolmente, costruisce un ponte tra spirito e materia.

Siamo chiamati a identificarci nei i “monaci del terzo millennio”, che santificano ogni azione quotidiana attraverso la consapevolezza e la dedizione.

Lavorare non significa più solo “guadagnarsi da vivere”, ma contribuire a edificare un mondo nuovo, partecipare all’evoluzione della coscienza planetaria.

Emblematica è la storia dei tre scalpellini:

  • il primo, frustrato, si limita a “tagliare pietre”;
  • il secondo, consapevole, “lavora per mantenere la famiglia”;
  • il terzo, illuminato, dice con fierezza: “Sto costruendo una cattedrale”.

In quale dei tre riconosciamo il nostro atteggiamento verso il lavoro?

Ognuno di noi, ogni giorno, costruisce – o potrebbe costruire – una cattedrale invisibile: la propria vita come opera d’arte e contributo alla grande opera dell’evoluzione. Il lavoro ci plasma. È il laboratorio attraverso cui ceselliamo la nostra coscienza. È lo strumento privilegiato con cui conosciamo noi stessi.

Oggi più che mai è necessario mettere il lavoro al servizio della coscienza e la coscienza al servizio del lavoro; uscire dalla logica della sopravvivenza e del semplice guadagno; entrare nella dimensione del significato, della cooperazione, della responsabilità condivisa. La relazione tra lavoro e coscienza è dinamica e profonda: il lavoro eleva la coscienza e la coscienza nobilita il lavoro.

Grazie a questo binomio potremo costruire un’economia del futuro in cui il lavoro sia riconosciuto come dono, come manifestazione del talento, come contributo all’evoluzione. Un’economia che non misuri solo l’efficienza, ma la dedizione, la bellezza, la qualità del servizio reso.

In fondo, lavorare è una forma di manifestazione dell’Amore per la Vita, per l’Umanità, per il Sé superiore.
Quando facciamo ciò che amiamo, quando lavoriamo nel flusso della nostra vocazione più autentica, il lavoro diventa una preghiera incarnata, un gesto creativo, un atto politico e spirituale. 

È attraverso il lavoro che contribuiamo alla costruzione del futuro, di un nuovo Rinascimento planetario. Non possiamo più permetterci di concepire il lavoro come tortura o fatica sterile. È tempo di restituirgli il suo valore più alto: quello di essere strumento di conoscenza di sé, di costruzione comunitaria, di manifestazione del nostro compito esistenziale. Il successo, allora, non sarà più la conquista di fama o denaro, ma lavorare per migliorare sé stessi e dare il proprio contributo al progresso dell’Umanità intera.

di Marcello Spinello